L’azzardo crea solitudine, pochi comprendono
A cura di Movimento NoSlot | Del 18 Maggio 2017
TAG: Azzardo Società
Perché su questo blog, sulla pagina Facebook e sui libri che abbiamo l’opportunità di scrivere, continuiamo a ripetere che l’azzardo non è un gioco? La risposta è semplice: ogni giorno ascoltiamo le storie di famiglie spezzate, in grave difficoltà economica e relazionale. Vittime della solitudine.
La cosa che maggiormente ci colpisce, infatti, è il senso di frustrazione che portano con sé, legato alla consapevolezza di non poter parlare con nessuno: rispetto ad altri tipi di dipendenze, infatti, l’azzardo non è ancora stato “accettato” come tale, né considerato come patologia dalla collettività. È quasi impossibile raccontare e avere la certezza di essere capiti, nemmeno dagli amici più cari.
La solitudine alimentata dalle parole
Quando partecipiamo ai convegni, ai dibattiti televisivi o cerchiamo di sensibilizzare utilizzando i social network, notiamo spesso toni aggressivi da parte di chi commenta, parole fredde, ciniche: la maggior parte delle persone ripete “nessuno li ha obbligati“, “se la sono andata a cercare“, “le slot sono innocue, è la gente che non sa ragionare“, “sono solo dei falliti!“.
A noi dispiace sentire o leggere queste cose, perché ci rendiamo conto di quanto sia complicato, per chi vive il problema, condividere il proprio dolore, visto che il rischio è ottenere risposte di questo tipo.
Purtroppo è vero, nessuno obbliga i giocatori a sperperare il proprio denaro, è una loro scelta inizialmente, ma questa “volontà” è reale la prima o la seconda volta. Dopo, quando il desiderio di rischiare aumenta, quando si torna a scommettere la terza, la quarta, la quinta volta e così via… beh, a quel punto il soggetto non è più in grado di capire, di ragionare. Non è più lucido, non è più in grado di decidere. È come se una voce esterna dicesse “corri, va a spendere, è il tuo giorno fortunato!“. L’istinto di seguirla è troppo forte. Proprio come accade a chi abusa di alcolici o sostanze stupefacenti. La compulsività che “pilota” il giocatore patologico, però, è più subdola, perché è più semplice da mascherare. Sono tanti i familiari che arrivano da noi increduli, che hanno aperto gli occhi troppo tardi.
Colpevolizzare, puntare il dito, non è la soluzione. Giudicare… ancora meno. Piuttosto, è necessario utilizzare tutta la dolcezza e tutta la pazienza possibili, per accompagnare chi ha bisogno lungo un cammino di rinascita: magari lungo, difficile, ma possibile. Sul nostro blog trovi tante storie.
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